“Per i diritti delle persone LGBTQ+ servono leader pragmatici”
La scrittrice e attivista Francesca Cavallo, intervistata dal Circolo UAAR di Milano, ci ha offerto la sua visione su vari temi, dalla lotta all’omofobia alla sessualità nel clero cattolico, in una società italiana in cui la religione conta sempre meno, a dispetto di quanto la deferenza della politica e dei media verso la chiesa lascino pensare.
“C’è ancora molta omofobia in Italia, è un fenomeno ancora forte. Chiunque dica che ormai l’omofobia è una cosa del passato, non sa di cosa parla. Io sono stata privilegiata, sono cresciuta con una famiglia che mi ha sempre supportato, e ciononostante non c’è mai stata una storia d’amore che ho vissuto nella quale non abbia dovuto fare i conti in modo anche molto pesante con l’omofobia.”
La scrittrice Francesca Cavallo, 41 anni, pugliese, da diversi anni si occupa a tutto campo di educare il pubblico a conoscere la sessualità umana e a formare nuove generazioni più consapevoli. Dopo una laurea in Scienze Umanistiche per la Comunicazione e un diploma in regia teatrale alla Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi di Milano, ha iniziato a lavorare in teatro e si è poi trasferita in California, dove ha co-fondato Timbuktu Labs, una startup di media per l’infanzia. Tra i suoi progetti di maggior successo c’è il libro Storie della Buonanotte per Bambine Ribelli, un libro di favole scritto con Elena Favilli, che ha venduto oltre 8 milioni di copie in tutto il mondo ed è stato tradotto in 49 lingue. Dopo quasi un decennio negli Stati Uniti, Cavallo è tornata in Italia nel 2021, stabilendosi a Roma. Tra i suoi progetti editoriali c’è anche Undercats, una casa editrice indipendente mirata a promuovere la diversità nei media per bambini. Nel 2022 ha pubblicato il suo primo libro per adulti “Ho un fuoco nel cassetto”, un romanzo autobiografico che esplora la sua esperienza come donna lesbica e meridionale nel mondo dell’editoria.
Secondo il rapporto ILGA-Europe del 2024, l’Italia si classifica al 36º posto su 49 Paesi europei per quanto riguarda i diritti delle persone LGBTQ+.
Riguardo alle strategie per combattere l’omofobia, ritengo che sia necessario adottare un approccio più realistico. Noi persone LGBTQ+ siamo una minoranza, non ci possiamo presentare ai tavoli negoziali dicendo “o questo, o niente”, altrimenti rischiamo di non portare a casa alcun risultato. Non abbiamo bisogno di leader che rappresentino le nostre istanze in tutto e per tutto fino alla morte, ma leader pragmatici, capaci di scendere anche a compromessi, che ci portino ad avanzamenti concreti. Questo è un problema di tutto il campo progressista, non solo dell’attivismo LGBTQ+. La democrazia funziona nella misura in cui si riesce a trovare il miglior compromesso possibile.
Il ruolo dei politici è quello di mediare, il nostro ruolo (di attivisti, operatori culturali) è quello di fare tutto ciò che possiamo per spostare l’asse culturale del Paese. Dobbiamo smettere però di guardare ai politici come se dovessero dimostrarci ad ogni piè sospinto la massima purezza e la perfetta adesione ai desideri di ciascuno. In questo modo la democrazia smette di funzionare.
È incredibile che un disegno di legge tutt’altro che rivoluzionario come il DDL Zan, che puntava a introdurre concetti base come “orientamento sessuale” o “identità di genere” nell’ordinamento legale italiano non sia stato approvato (nel 2021, quando il governo era guidato da Draghi, non da Meloni).
Anche in quel caso, è mancato il pragmatismo. Dal momento che la destra e alcuni settori del centrosinistra erano contrari all’espressione “identità di genere”, per quanto la loro contrarietà sia ideologica e per me francamente incomprensibile, si sarebbe potuto esprimere il concetto alla base del DDL Zan in un altro modo. Invece di concentrarsi sull’identità della vittima [di violenze contro le persone LGBTQ+], ci si poteva concentrare sul movente, il che sarebbe stato anche coerente con il modo in cui il Codice Penale italiano tratta altri crimini di odio. Si poteva porlo in questi termini: se il movente è l’omo-, bi-, transfobia, scatta l’aggravante. Io credo che sia necessario nella tutela di tutte le persone LGBTQ+ sforzarsi di essere più creativi e meno ideologici se vogliamo costruire un progresso. E anche di lavorare su una maggiore compattezza del nostro fronte. Certo che ci sono persone per cui, per esempio, la genitorialità o il matrimonio non sono importanti perché vengono viste come “istituzioni borghesi”, ma la riforma del diritto di famiglia è un pezzo fondamentale di questa battaglia perché senza di esso di fatto rimaniamo cittadini di serie b.
Rendiamoci conto che siamo in un Paese che ha rimpatriato con un volo di stato un torturatore libico e che nello stesso tempo dichiara che la gestazione per altri è un reato universale.
A proposito della “gestazione per altri”: molte donne la considerano uno sfruttamento inaccettabile del corpo femminile, mentre per altre è un’opzione che dev’essere lasciata a ciascuna donna. Tu cosa ne pensi?
Secondo me è una cosa né positiva né negativa. Esiste, fin dai tempi della Bibbia. Esattamente come l’aborto, che viene visto in modi diversi da persone diverse. Se togliamo il diritto di abortire non stiamo eliminando l’aborto, stiamo eliminando la possibilità per le donne di abortire in modo sicuro. Allo stesso modo la gestazione per altri non smetterà di esistere. Attualmente la stiamo rendendo un privilegio per ricchi che non temono di incorrere nella multa o che possono permettersi di non avere paura delle misure detentive, e stiamo mettendo a repentaglio i diritti dei bambini che nascono con quella modalità, esattamente come fa il governo con i bambini delle famiglie arcobaleno.
Per un bambino o una bambina, nascere in una famiglia che ti desidera fortemente, che si impegna per farti venire al mondo, è senz’altro una cosa bella. In un Paese come il nostro, con i problemi di natalità che abbiamo, non riesco a capire una politica che si impegna per ridurre l’accesso all’aborto sicuro e poi criminalizza genitori che si sentono pronti e che vogliono creare una famiglia. Qual è la logica?
Perché continuiamo a non avere un’educazione sessuale e affettiva nelle scuole italiane?
C’è innanzitutto una mancata comprensione del ruolo della scuola in una società democratica. La scuola non è un parcheggio dove i genitori vanno a depositare i figli, è un diritto dei ragazzi, e ha doveri non verso i genitori, ma verso gli studenti, prima di tutto. Deve dare loro gli strumenti per vivere bene nel mondo, e insegnare ai ragazzi a godere appieno dei propri diritti e a rispettare i propri doveri. Aspettarsi che siano le famiglie a farsi carico dell’educazione sessuale e affettiva è profondamente sbagliato: i genitori nella maggior parte dei casi non hanno gli strumenti culturali per affrontare questi temi con i loro figli, perché nessuno li ha affrontati con loro. Dipingere le famiglie come luoghi idilliaci ignora la realtà che le famiglie sono spesso i primi luoghi in cui i bambini sono testimoni di violenza. Per cui è vero il contrario: è attraverso i bambini che la scuola può intervenire per offrire una guida alle famiglie, perché l’educazione su questi temi non passa solo dai genitori ai figli, può andare anche dai figli ai genitori.
La cultura cattolica ha un ruolo primario in questa situazione. La chiesa non vuole che si insegnino temi sessuali e affettivi in chiave moderna nelle scuole. Il sesso è un tabù, sono tuttora i proverbiali panni sporchi che si lavano a casa propria.
Senza dubbio, il senso di vergogna che il cattolicesimo ha per secoli instillato nella popolazione riguardo ai temi sessuali è un problema gigantesco. Siamo cresciuti immersi in questa cultura della vergogna e del tabù e per togliersela di dosso ci vuole veramente un lavoro enorme. Poi l’idea che a pronunciarsi su questi temi sia un’istituzione, la chiesa cattolica, in cui il problema della violenza, specialmente sui minori, è a livello epidemico, mi sembra un controsenso enorme.
Sulla tua newsletter hai scritto a proposito del rapporto che è uscito sugli abusi sessuali nella diocesi di Bolzano. Hai offerto un’analisi molto lucida riguardo alla sessualità dei sacerdoti, che fin da adolescenti vengono spinti a sopprimere la loro sessualità e poi diventano adulti profondamente immaturi.
Ciò che ho scritto nella newsletter non sono mie opinioni, ma analisi e dati desunti da studi molto approfonditi. La domanda di base è questa: il problema degli abusi sui minori nella chiesa è legato a un problema di “risorse umane” (in altre parole, vengono selezionate persone che hanno già, al momento dell’entrata in seminario, un “disturbo pedofilico”) oppure è l’esperienza del seminario prima e poi del sacerdozio che crea un trauma e causa questa tendenza all’abuso di minori come risultato? Dagli studi sembra che questa seconda ipotesi sia molto più probabile. Sembra insomma che sia proprio il modo in cui è strutturata l’esperienza del sacerdozio, dalla formazione alla vita sacerdotale che genera questa tendenza alla violenza. I problemi individuati da chi studia il fenomeno sono molti e vanno dalla segregazione di genere, al celibato, all’isolamento in cui vivono molti sacerdoti. Per esempio, le chiese in cui è consentito il sacerdozio alle donne, o quelle in cui i sacerdoti possono sposarsi se lo desiderano, vedono dimezzarsi le percentuali di abusi sui minori. La chiesa in molti aspetti della sua costituzione fondamentale è ormai fuori dalla storia e continua a commettere errori che sono difficili da accettare nel 2025. Voglio sottolineare che non ho scritto di questi temi perché sono anticlericale a priori, anzi non mi definisco nemmeno atea, ho una forte spiritualità, sono cresciuta in un ambiente cattolico e ho conservato una parte di quell’educazione, ma oggi non riesco più a considerarmi cattolica. Sono molto arrabbiata nei confronti della chiesa cattolica, perché credo che la spiritualità sia una necessità umana e che la chiesa nel nostro Paese abbia lasciato un vuoto molto problematico, mentre allo stesso tempo impedisce ad altri di riempirlo.
L’UAAR denuncia spesso il fatto che la chiesa cattolica gode di finanziamenti poco trasparenti e di sgravi fiscali decisamente eccessivi.
Nella zona di Roma dove abito ci sono letteralmente centinaia di chiese, che dovrebbero assolvere a una funzione sociale che ormai non svolgono più, e su tutti questi immobili la chiesa non paga le tasse. Gli italiani che vogliono seguire strade spirituali oggi spesso si rivolgono anche ad altri culti e pratiche, dal buddhismo allo yoga, ma la chiesa continua ad avere uno strapotere che secondo me è ingiustificato. Credo ci siano pochi dubbi ormai sul fatto che la chiesa stia fallendo nella sua missione dichiarata. Quello che mi preoccupa è che di fronte a questo fallimento, invece che prenderne atto e cercare di rinnovarsi, si cerchi in qualche modo di avvicinarsi alle forze di estrema destra nella speranza di poter in qualche modo riavvolgere il nastro della storia. Mi sembra una tendenza pericolosa.
Due mesi fa abbiamo celebrato la festa della donna. Siamo nel 2025, vorremmo sperare che certi diritti siano ormai acquisiti, e invece vediamo che c’è ancora tanto
lavoro da fare. E in tutto l’occidente tira un vento di destra che potrebbe avere conseguenze negative per le donne. Sorprendentemente però in queste destre ci sono molte donne leader, da Giorgia Meloni ad Alice Weidel, la segretaria di Alternative für Deutschland. È un controsenso?
È una domanda che mi sono fatta anch’io spessissimo. Come è possibile che le poche donne che si riescono a eleggere al governo emergono a destra (Meloni, von der Leyen)?
Nei partiti di sinistra, tutte le donne che hanno cercato di farsi strada non riescono ad andare oltre la candidatura (Elly Schlein è sì stata eletta, ma solo internamente al PD). Su questo punto l’elettorato di sinistra dovrebbe fare un enorme esame di coscienza.
Ci sono ancora notevoli difficoltà per le donne nel mondo del lavoro, con donne in posizioni dirigenziali in grandi aziende che rischiano di essere declassate a impiegate se decidono di diventare madri, donne che subiscono mobbing perché sono incinte. Da imprenditrice e donna, quali sarebbero secondo te le prime mosse da fare per raggiungere la parità di genere sul lavoro in Italia?
Ad oggi non vedo grandi progressi nel mondo del lavoro in Italia da questo punto di vista. Finché non si agisce su misure strutturali, come ad esempio il congedo di paternità unito agli asili nido, sarà difficile vedere progressi concreti. Che senso ha – per esempio – fare grandi proclami sull’importanza della natalità quando la realtà è che le famiglie italiane che decidono di avere figli vengono lasciate completamente da sole? Si delega troppo all’iniziativa del privato, dipingendo le aziende a volte come mostri, a volte come eroiche, e penso agli articoli di elogio di questa o quell’azienda che decide di assumere una donna incinta, come se avesse fatto chissà cosa. Questo tipo di articoli mi fanno rabbrividire perché se mi metto nei panni della donna incinta che è stata assunta, mi rendo conto che probabilmente si sentirà considerata non come professionista, non valorizzata per le sue competenze, ma assunta in quanto “donna incinta”. Queste cose sono indicative di quanto siamo indietro culturalmente sul tema donne e lavoro. Se vogliamo fare progressi sono necessarie misure strutturali sul piano pubblico. Il congedo di paternità obbligatorio, unito agli asili nido (perché senza essere combinato agli asili nido, anche quello ha un’importanza relativa) sarebbe un grande passo avanti verso la parità. Queste misure avrebbero un impatto importante su tutti: sulla produttività del nostro Paese, sulla natalità (e quindi sul welfare), e anche sui bambini, che avrebbero la possibilità di passare più tempo con i papà. Questo tipo di misure aiutano la società a realizzare il proprio potenziale.
E’ anche una questione razionale. Discriminare il 50% della popolazione non è solo un’ingiustizia morale, è anche poco intelligente.
Oggi la nostra società ha di fronte a sé sfide enormi, dalla denatalità al cambiamento climatico, all’intelligenza artificiale, e le stiamo affrontando con una mano legata dietro la schiena, perché alle donne non è tuttora possibile esprimere al meglio le loro potenzialità. Se crediamo che il talento sia equamente distribuito tra uomini e donne, non possiamo davvero rassegnarci ad utilizzare così poco il talento delle donne italiane. È uno spreco enorme che danneggia tutti.
Un altro tema caldo è la violenza sulle donne. C’è una grande attenzione dei media, ci sono manifestazioni di protesta a cui partecipano decine di migliaia di persone, ma il fenomeno continua e la situazione non sembra migliorare. Tu ti occupi di educazione, hai scritto libri dedicati anche ai bambini maschi, e pubblichi la newsletter Maschi del futuro.
La violenza di genere è un fenomeno estremamente complesso e, purtroppo, nonostante la grande quantità di articoli che vengono pubblicati sui femminicidi e sulle violenze di genere, è difficile che si vada in profondità e oltre un dibattito estremamente polarizzato che sembra potersi risolvere in “le donne sono buone, gli uomini sono cattivi”. Ovviamente, non è così semplice. Questi contenuti tendono a creare una spaccatura tra uomini e donne, con una “mostrificazione” degli uomini. Nessuna società può funzionare così, non si può automaticamente mettere il 50% della popolazione dalla parte dei cattivi. Né – naturalmente – si può far finta che la violenza di genere non esista. Entrambe sono ricette per aumentare il livello della violenza tra uomini e donne, non per diminuirla. Ciò che può aiutarci a fare uno scarto in avanti è la conoscenza approfondita delle radici di questi fenomeni, e di come si manifestano.
Dobbiamo farci delle domande difficili: se consideriamo che il 95% della popolazione carceraria è costituita da uomini, l’80% dei suicidi sono uomini, l’evasione fiscale è più frequente tra gli uomini che tra le donne… dobbiamo chiederci: cosa spinge gli uomini ad essere più violenti, anche contro se stessi? Per questo ho deciso di avviare iniziative in cui mi dedico al tema della maschilità, partendo dall’educazione dei bambini, scrivendo fiabe, e interrogandomi su quali sono i modelli che noi offriamo ai bambini e alle bambine. Alle bambine viene da sempre raccontato che sono piccole principesse che devono essere salvate da valorosi maschi, e i bambini finiscono per pensare che o sono i salvatori o non hanno ragione di esistere. Dobbiamo cambiare il modello dell’educazione maschile, così come faticosamente stiamo cambiando quello dell’educazione femminile. Dobbiamo smettere di raccontare ai bambini che i maschi sarebbero più semplici o rudimentali rispetto alle femmine. Non è così, e imparare a guardarsi dentro e a gestire in modo costruttivo la propria emotività è una capacità che serve a tutti gli umani, non solo alle donne. La mascolinità non è tossica, sono tossiche le narrazioni che noi continuiamo a offrire ai bambini. Per questo ho scritto la prima raccolta di fiabe al mondo che offre a tutti i bambini un’idea più sana e completa della maschilità, Storie Spaziali per Maschi del Futuro.